Di Annita Garibaldi Jallet
Il 1849, anno in cui si conclude tragicamente e gloriosamente la Repubblica Romana, deve essere ricordato, 170 dopo, anche per la sofferenza di coloro che, sopravissuti alle cruenti battaglie, furono condannati all’esilio, talvolta più duro da sopportarsi della morte stessa. Tra loro, Mazzini, Garibaldi, e tanti altri combattenti che dovettero disperdersi nel mondo. L’Europa nascente, che si diceva romantica, aveva già seminato esuli, dalla Rivoluzione francese a Napoleone, dal 1821 al 1831, dalla Francia alla Spagna, alla Russia, cui si aggiunsero quelli del 1848, i cui progetti si sarebbero realizzati più tardi dai governi e dalle loro diplomazie. Mazzini non vide la Repubblica; l’Esercito meridionale, ossatura della nazione, fu umiliato, Garibaldi e i suoi volontari non entrarono a Roma nel 1870.
Le commemorazioni odierne sia del 1849, sia del centenario della fine della Grande Guerra, con i suoi trattati di pace del 1919, ci invitano a considerare la somma immane di sofferenze causate dalle guerre, qualsiasi sia la loro motivazione. L’amnistia per gli insorti del 1849 non cancellò il loro lungo vagare e l’amarezza, il dolore per la famiglia e il lavoro abbandonati. Molti però parteciparono alle nuove avventure garibaldine, alla Spedizione dei Mille e videro la vittoria delle loro idee. Un bell’anniversario. Invece le conseguenze della Grande Guerra si videro subito e l’ingratitudine verso i combattenti, i mutilati e le loro famiglie, in pochi anni premiò chi usava questi reduci per farne un terreno fertile nel percorso politico che avrebbe portato alla dittatura.
1919-1925: cento anni or sono maturarono le condizioni per la morte di alcuni, la prigionia per altri, l’esilio per i più fortunati. Non facciamoci prendere dalla magia dei numeri, ma non dimentichiamo l’esempio. Una forte volontà di potere animava uomini per cultura non certo destinati a guidare popoli. Causarono milioni di morti perché di loro si erano infatuati i deboli. Chi poteva resistere fu cancellato. Così come un manipolo di sovversivi sta cancellando quanto è stato costruito sulla pace riconquistata nel 1945. Poco ci è voluto a sgretolare uno dei pilastri dell’Unione Europea, la Gran Bretagna: un referendum distrattamente costruito e votato, guidato da un leader disinteressato a gestirne le conseguenze. A molti basta distruggere, e sul caos poi si vede cosa si può fare. Il suffragio universale è uno strumento incontestabile di democrazia ma è anche pericoloso perché può essere manovrato con i mezzi di comunicazione moderni, specialmente se usato come strumento di democrazia diretta. Le elezioni del 1925 arrivarono al termine di una lunga maturazione di una forza politica e lo stesso avvenne in Germania. Può consolare il fatto che molti di quelli che hanno sopportato lunghi esili, rientrati in patria, l’hanno ricostruita? Si, purché “mai più”, come viene scolpito sui tanti monumenti ai caduti di tutte le guerre. Gli esiliati non hanno i loro monumenti. Peggio ancora: furono considerati come andati via, sicché i tanti prigionieri e dispersi italiani che vollero tornare a casa nel 1945, vennero accolti male, come ebbero a ricordare le vicende della Divisione “Garibaldi” e di numerosi prigionieri del Reich.
L’esilio oggi è nella propria patria, nel proprio ambiente, se non si appartiene alla forza dominante del momento che attrae perché il carro del vincitore è più allegro di quello sul quale ci si ostina a coltivare con lavoro e pazienza i frutti della democrazia. Se poi nella cultura aleggia l’uomo provvidenziale, il Babbo Natale della politica che poi si rivela immancabilmente il lupo nascosto nella foresta, sopravviene l’abbandono alla forza, il ripiego sui propri interessi ed allora i pericoli sono grandi. L’Italia naviga da anni tra una folle speranza e l’altra in un miracolo salvifico, mentre si amplia la massa di coloro che non vogliono più sentir parlare di politica, ma che davanti alla necessità di votare, di sperare ancora, si buttano nel primo populismo che passa. E poi si torna a casa: la politica viene gestita lontano dai cittadini, tutti in esilio davanti alle porte chiuse dei partiti.
L’esilio è eminentemente politico. Mentre le migrazioni hanno prevalentemente ragioni economico-sociali o cultural-religiose, l’esilio è la messa al bando di una persona o di un gruppo di persone. L’esilio come lo s’intendeva nell’800 era un esilio vero, verso terre lontane, e implicava un distacco fisico. Le comunicazioni non erano quelle di oggi, anche se sorprendono talvolta per la loro agilità. La politica ora non si fa più illusione sul ruolo dell’esilio inferto agli oppositori. Oggi l’esilio è molto meno ad personam. Molti, così tanti da costituire una emigrazione, partono dal proprio paese perché disperati, fuggono da atroci dittature mediorientali, africane, sudamericane, dalla fame, dalla disperazione per il futuro. Diverso il caso dei giovani europei, italiani soprattutto, che partono per cercare la loro vita altrove, ma non senza risorse professionali e personali. E’ sempre esilio ma se la patria è là dove si è felici, per dirla come Voltaire, allora va bene. Se invece viene voglia di tornare, allora è esilio vero, e la patria sì bella e perduta va riconquistata. Quanti sognano di tornare nella terra ingrata? La patria oggi si mette nello zaino, e una buona parte dell’umanità pretende ora di piantare la tenda dove le pare. Non saranno quelli che appartengono a un popolo che parte in massa a volere frontiere contro chi arriva, si spera.
Il manifesto in copertina, che così bene illustra il senso della mostra “Un Garibaldi di carta” da noi presentata a Caprera, esprime l’immagine odierna di uno dei padri della patria: un’immagine scomposta come un caleidoscopio che si dovrebbe ricomporre per consentire una lettura adeguata della sua storia e dei suoi valori. Ma se non ci si riesce, bisognerà assicurare anche al Generale, finché si può, un esilio morale sereno e meno tormentato di quello che si scelse nella sua Caprera. E assicurarci che siamo ancora, malgrado tutto, per lui e tanti altri, terra di libertà.